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nEVERMIND

Avevo ventiquattro anno quando morì Kurt Cobain. Ricordo nitidamente l’effetto di quella notizia. Il suo suicidio significava qualcosa di più della perdita di un mito giovanile: un vuoto difficile da colmare, quasi che con lui si spegnesse un mondo, un’ipotesi in cui avevamo creduto. Per chi, come me, suonava in una band, ascoltava musica “di un certo tipo”, considerava il Grunge come qualche anno prima aveva considerato la New Wave inglese (ovvero un modello di vita, oltre che di musica), non era semplice accettare che il cantante dei Nirvana avesse deciso di togliersi la vita. Cobain divenne subito un mito: la sua immagine si cristallizzò in un’icona, la sua voce continuò ad accompagnare la mia generazione e quelle successive, le sue canzoni entrarono nella storia del rock. Un po’ di inevitabile invidia per chi ebbe la fortuna di vedere i Nirvana dal vivo al Bloom (dietro l’angolo… Proprio dietro casa…! Ma chi poteva immaginarselo? Non li conosceva ancora nessuno…!) e poi il ricordo, tenuto vivo dai loro pezzi, che ancora oggi riescono a catturarmi.

È decisamente molto strano per me scrivere un testo per una mostra d’arte lasciando libera di esprimersi l’altra parte di me, quella che nella vita mi ha dato forse un po’ meno soddisfazioni ma mi ha comunque regalato grandi emozioni: la parte musicale. Cresciuta tra Bauhaus, Joy Division e The Smiths, passata per Pearl Jam e Sonic Youth, personalmente partecipe alla wave italiana degli anni Novanta, condividendo il palco con un po’ tutti i gruppi protagonisti di quegli anni – dai CSI ai Marlene Kuntz – non ho mai smesso di pensare alla musica come a una parte essenziale di me. Probabilmente la musica è il mio vero rifugio personale.

Di musica Fabio Presti ed io parliamo spesso. Non potrebbe essere altrimenti. Forse parliamo più di musica che di pittura! Ed è forse per questo che per il progetto per questa mostra non mi sono nemmeno presa la cura di considerare con calma l’idea e di sottoporla prima alle persone con cui nella consuetudine condivido ogni scelta: “Certo che facciamo una mostra sugli anni Novanta! Comincia pure a lavorarci subito”…

L’idea alla base di questo progetto è di per sé molto particolare e rivela quanto l’ascolto di certi album e la relazione con certe band sia stata importante per Fabio Presti e quanto abbia interagito anche con il suo fare arte.

La musica faceva già capolino in una delle prime opere “mature” dell’artista: Love song. Nella tela erano già presenti tutti gli elementi che ne caratterizzano ancora oggi la ricerca: le figure stilizzate, il fondo bianco impastato con la polvere di marmo, le campiture cromatiche che a tratti incorniciano la composizione mettendo in relazione la figura con lo sfondo, la silenziosa poesia che permea le immagini, anche là dove protagonista è il rumore di una chitarra elettrica amplificata, come nel caso dell’opera citata.

Lo stile di Presti negli anni è cresciuto, è maturato ma non è cambiato nella sostanza. Sempre riconoscibile, direi quasi inconfondibile, ha saputo evolversi senza tradirsi o smarrirsi.

Questa sua serie di omaggi al suo personale universo musicale offre innanzi tutto una testimonianza di questa coerenza e della riconoscibilità della grammatica dell’artista. Ciascuna è un’opera indipendente che anche se presa singolarmente e svincolata dal contesto continua a vivere e a comunicare. Ciascuna tela è un frammento che può esistere autonomamente ma che se inserito al suo posto nell’insieme dei pezzi si rivela nella sua completezza. Nel realizzare questo ciclo di opere, Presti non ha solo dipinto un ottimo gruppo di lavori, ha anche composto un racconto personale e generazionale a un tempo. Si è lasciato guidare, emozionare, suggestionare da quelle canzoni, da quegli album, da quelle band che hanno segnato la sua esistenza e ha tradotto questa esperienza privata in una serie di immagini. Non si tratta di rivisitazioni di copertine né tanto meno di riproduzioni di fotografie o frame di video; sono impressioni nate dall’ascolto: un immaginario costruito lasciando che i suoni, i filmanti e i concerti si mescolassero ai propri ricordi personali, a scorci di vita privata, alla sua dimensione più intima di uomo e di artista.

nEVERMIND è un progetto complesso, che intreccia pubblico e privato, pittura, musica e narrazione; parla a chi questa musica l’ha ascoltata negli anni Novanta, a chi la ascolta ora ma anche a chi non l’ha mai sentita né mai lo farà; racconta, insomma, storie diverse a seconda del lettore, delle sue intenzioni, del suo background culturale e dello sguardo che ha deciso di dedicargli. Da una parte c’è la consumata sapienza compositiva di Presti, la sua capacità di impaginare esili figure nel vuoto dello sfondo, sospendendole in un tutto onirico e avvolgente, c’è la sua materia e la sua tavolozza fatta di bianchi, di ruggini e di inaspettate aperture di blu. Dall’altra c’è il rincorrersi di citazioni, simboli e riferimenti che strizzano l’occhio agli appassionati di un certo mondo musicale o che appartengono al mondo privato dell’artista, in un continuo dialogo tra dimensione intima, manifesto generazionale e discorso universale.

Pittura e musica si dividono la scena, in uno scambio molto produttivo che esalta entrambe, in un perfetto equilibrio.

nEVERMIND è, e non potrebbe essere altrimenti, un’esposizione di dipinti. Ma mi piace pensare che sia anche una sorta di playlist: un regalo che Presti ha fatto a sé stesso e agli amici. La sua pittura. La sua musica.

Simona Bartolena - Testo tratto dal catalogo "Fabio Presti - nEVERMIND” - Ponte 43

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